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Ecco com’è la nostra testa, ecco com’è la nostra quotidianità.
Può sembrare paradossale vero? Come fanno delle persone che si trascurano così tanto, che eccedono o che si privano totalmente a pensare solo a quello? Come si fa a far ruotare la propria vita attorno ad un piatto, ad una bilancia o ad uno specchio?
E’ così per chiunque abbia un disturbo alimentare, è così per chiunque esterni il suo malessere tramite un rapporto malsano con quello che dovrebbe semplicemente essere un + alle proprie giornate, quello che dovrebbe essere visto come è visto l’ossigeno: qualcosa di fondamentale per l’uomo e per la sua sopravvivenza.
Forse questa visione può sembrare un po’ cinica ma la verità è che l’alimentazione è un processo fisiologico grazie al quale l’uomo riesce ad andare avanti ed è questo il punto cruciale: noi siamo bloccati o, peggio ancora, spinti indietro.
Per noi diventa qualcosa di preponderante il cercare di andare avanti, aspirando a condurre quella che viene banalmente chiamata “quotidianità” e che per noi diventa oggetto di desiderio, il quale giustamente però più viene sognato più si allontana e diventa remoto.
Inizialmente si pensa di condurre una vita normale, anzi, ci si sente benissimo in quelle che sono le proprie giornate, tanto da pensare di essere potenti, di essere i migliori, di essere “capaci”.
Ma capaci di cosa?
Capaci di controllarsi o di abbandonarsi a ciò che più si ama, capaci quindi di volersi bene esagerando e prendendo tutto ciò che si vuole o di farlo tramite la restrizione, tramite la protezione, una sorta di ascetismo, il quale può portare solo ad un bene maggiore.
Questo senso di onnipotenza offusca per lo più tutto ciò che sta succedendo, non si percepisce infatti di aver assunto una serie di comportamenti disfunzionali, non si capisce di avere una visione completamente distorta di ciò che è il cibo, che sono i pasti e che è la famigerata amica caloria.
Molto spesso per uscire da questa bolla ci vogliono mesi, anni, numerosi periodi di siccità per le troppe lacrime, serve rischiare di rimanere da soli, rischiare di perdere tutto ciò che si ha, nonostante i tentativi dei propri cari di fare qualcosa, i quali risultano inutili.
Risultano inutili per il semplice fatto che finché non è il soggetto in prima persona a fare qualcosa, a buttarsi un secchio di acqua gelida in faccia ed a darsi un paio di schiaffi per riprendersi e per riniziare a guardare la realtà in modo oggettivo, riconoscendo tutti gli errori che si stanno ripetutamente commettendo, nulla cambierà, tutto procederà come se nulla fosse.
Questa apparente indifferenza è la chiave migliore per non pensarci, per non dover affrontare la propria immagine riflessa nello specchio, immagine che provoca estremo dolore, immagine che è esattamente l’opposto di ciò che si vorrebbe essere, nonostante possa sembrare che si stia bene.
Ma poi avviene lo switch, il cambiamento, il “tic” del pulsante che da off passa ad on, il momento in cui si tolgono le mani dalla tasca o da dietro la schiena, mani pronte a toccare le proprie ossa o i propri chili di troppo, pronte ad accarezzare, ad accogliere, ad accettare ed a modellare, riuscendo finalmente a prendere in mano la propria vita per farne ciò che si vuole realmente, per stare bene.
Questo articolo è opera della nostra associata Giulia Ninotta. Se vuoi saperne di più clicca qui.