Proana. Noana. Profat. Proed.
Oltre a sembrare il nome di qualche città delle Hawaii o di qualche posto sperduto del sud-est asiatico, queste parole rappresentano degli hashtag, hashtag che spopolano su Instagram e sui social network, parole brevissime che racchiudono mille significati e che rappresentano migliaia di vite.
Li ho scoperti all’inizio, quando non avevo ancora capito in che cosa mi stavo andando a cacciare, quando tutto mi sembrava un gioco nel quale sentivo di essere un’ottima candidata per il podio.
Avevo iniziato da poco ad usare Instagram, ne ero affascinata, quasi ipnotizzata probabilmente a causa del mio amore per la fotografia ma soprattutto per la facilità con cui le persone erano capaci di spogliarsi (sia letteralmente che non), di mostrarsi, di far vedere al mondo chi era, cosa faceva, come si vestiva e come stava in bikini.
La cosa mi faceva rabbia, perchè loro riuscivano ed io no? Perchè io prendevo a pugni le mie cosce sperando diminuissero mentre loro le sfoggiavano avvolte da jeans skinny che sembravano disegnati apposta per loro?
Ed è così che scoprì i profili di “recovery”, profili di ragazze/ragazzi (ebbene sì, ci son tantissimi ragazzi che soffrono di disturbi dell’alimentazione) che tentavano di stare meglio.
Vorrei aprire qui una parentesi sulla bellezza del verbo “to recover”, che in inglese ha un significato meraviglioso, concerne infatti a tutto il percorso di ripresa, di miglioramento, in questo caso si trattava di un iter intrapreso verso l’equilibrio psicofisico, verso l’accettazione dello specchio e della bilancia, verso la presa di coscienza di chi si è e di chi non si può essere.
Ero assuefatta da queste persone, era ed è tutt’ora una vera e propria community di giovani o meno che condividono le loro giornate, le loro fatiche, le loro paure o le loro certezze, a cui si aggrappano per sentirsi al sicuro: si parla di comfort food e di fear food, di winning day o di goals, è una vera e propria battaglia, un lungo giro d’italia in cui le tappe al posto delle città hanno un’abbuffata o una restrizione in meno ed una camminata o un allenamento in più.
Queste persone le sentivo vicine a me, le vedevo come dei punti di riferimento, come delle persone da emulare, da “adorare”, persone dalle quali volevi anzi, bramavi un like o un follow.
In tutto ciò avevo creato anche io un profilo, postavo quello che (non) mangiavo ma non sembravo riscuotere successo, non sembravo essere abbastanza “malata”, non ero interessante; ogni giorno cercavo di capire come ottenere affetto, solidarietà, chiedevo e supplicavo per avere ed ottenere tramite uno schermo tutto ciò che non riuscivo ad ottenere nella mia quotidianità dalle persone che avevo accanto, il tutto a causa di un profondo senso di vergogna per il quale non riuscivo a chiedere aiuto.
Avevo trovato in tutto ciò quella che sembrava essere un’ancora di salvezza ma che allo stesso tempo assomigliava molto al muro con le nuvolette di “The Truman Show”.
Mi è capitato infatti di trovare persone che iniziavano quasi a sfruttare questo following e che hanno iniziato anche a comportarsi seguendo alla lettera l’abcdario della star holliwodiana, dimenticandosi che in gioco c’è qualcosa in più del semplice click di una persona, ci sono vite, ci sono corpi ma soprattutto teste che si affidano.
Si è venuto quindi a creare quello che potrei definire una sorta di guru, una figura che nel XXI secolo chiameremmo blogger, anticipato da una parolina chiave che ne descrive il contenuto ma in questo caso quale sarebbe? E soprattutto, ha le effettive conoscenze per impartire consigli, per dire se è giusto o meno mangiare una determinata cosa, andare a correre fino allo svenimento o pesarsi ogni due ore?
Il vero problema però insorge nel momento in cui diventano ‘emblemi” i profili “pro”, quei profili che incoraggiano comportamenti devianti, che spingono a misurarsi la larghezza della galleria che si ha tra le cosce per far si che aumenti, così da creare due o tre sensi di marcia o a mangiarsi una torta intera da soli in una sera dal momento che “tanto si è belli comunque, non c’è da preoccuparsi, sono tutte cavolate le cose che dicono i medici!”; è una realtà che si sta diffondendo, une realtà che non si rende conto (spero) di stimolare e di ingranare la quarta in quei veicoli che, sperduti ed in difficoltà, seguono la strada più illuminata, quella che sembra essere la più facile.
Tutto questo discorso può essere mal interpretato, me ne rendo conto, non voglio assolutamente che si pensi che sia sbagliato cercare sostegno, cercare qualcuno come se stessi, qualcuno che può capire il dolore, i dubbi, le voci che costantemente picchiettano ma semplicemente non bisogna lasciarsi trasportare da un’onda che, per quanto possa sembrare fautrice di un bellissimo dondolio, può sempre trasformarsi in un kamikaze, in un circolo vizioso dal quale non si esce e che al posto di portarti alla riva ti affonda.
Ci vorrebbe semplicemente un po’ più di educazione, come in tutte le cose, ci vorrebbe solamente quella: sarebbe infatti fantastico per noi, creature esistenti e non mitologiche come molti possano pensare, avere la possibilità di parlare, di spiegare cosa effettivamente sia, cosa venga sentito e percepito, senza doversi sentire a disagio per un silenzio di troppo o per domande scomode tipo “ma quanto pesi ora?” così da poter avere un confronto sui social network nel momento in cui diventa un plus, non il totus, quello lo si costruisce quotidianiamente con se stessi e con coloro che magari non c’erano prima, non ci saranno dopo ma che ci sono ora, unico fattore che conta.
Articolo di Giulia Ninotta