Sarebbe riduttivo pensare che il cibo oggi, nella nostra società, sia solo fonte di sostentamento indispensabile all’esistenza umana. Se così fosse potremmo immaginare di assumere le quantità equivalenti dei nutrienti necessari alla sopravvivenza magari attraverso pietanze “sintetizzate” (la pillola arancione per la vitamina C!). Nessuno può mettere in dubbio che abbiamo bisogno di mangiare per sopravvivere ma il cibo non soddisfa un bisogno solo fisiologico. La sua natura fortemente sociale è indiscussa e, diversamente dagli animali che si procurano del cibo per sfamarsi e colmare la necessità fisica di nutrirsi, i bisogni alimentari dell’uomo sono collegati invece ad aspetti più relazionali, di convivialità: una birra fa da sfondo ad una serata tra amici, una pizza riunisce un gruppo, mangiamo il pandoro per festeggiare il periodo natalizio, e così via con gli esempi che ci fanno intuire che il cibo è anche un carburante sociale.

Le abitudini alimentari, le quantità e la qualità del cibo, le tipologie di consumo sono il frutto di quei cambiamenti individuali e socio-culturali che hanno segnato l’evoluzione umana.  Pensiamo al cacciatore guidato dal suo istinto che si ritrova, insieme ai suoi simili, attorno al fuoco. Fuoco che cuoce le carni, che scalda chi è vicino e che crea il gruppo. L’inizio delle varie tradizioni alimentari, l’attribuzione di un valore simbolico al cibo, probabilmente trae origine da questi momenti in cui il mangiare ed il bere sono serviti da collante nella celebrazione di feste ed eventi, nel tracciare i confini culinari delle regioni e delle nazioni. Nonostante il valore altamente sociale del cibo connesso al suo aspetto relazionale, spesso nella società in cui viviamo l’atto del mangiare perde questo connotato fondamentale e gli aspetti del benessere psico-fisico e del nutrimento passano anch’essi in secondo piano, così il rapporto con il cibo diventa precario, spesso nocivo. Non è per tutti così facile destreggiarsi nella miriade di messaggi che ci invitano a celebrare e osannare le gioie di un sapore unico: dalle pubblicità alla nascita dei food blogger, dai programmi televisivi alle mode alimentari, dallo show cooking alle sfide di abilità culinarie davanti i fornelli. La fatica e la difficoltà di viversi gli aspetti di aggregazione che caratterizzano i momenti di condivisione dei pasti insieme al gruppo, nascondono molto spesso una profonda sofferenza e così il cibo viene vissuto come una dipendenza, una condanna, perché ci si sente totalmente sottomessi ad una fame che ha dei confini sempre meno chiari. Spesso questo è collegato a quelle emozioni che percepiamo come ambigue e contrastanti e così mi accorgo che mangiare può colmare un vuoto, il senso di solitudine, la rabbia, oppure smetto di mangiare perché mi sento troppo triste, delusa, disperata. In questi termini l’alimentazione è una conquista che l’uomo ha fatto, segno del suo evolversi e di una forma di benessere che forse ha segnato il suo progredire e trasformarsi. Eppure non è per tutti così e per quanto il cibo, questo collante sociale, abiti le nostre case, prenda vita nelle nostre tavole, spesso diventa lo strumento di comunicazione per esprimere insicurezze, paure, rabbia. Quando alimentarsi prende i confini del disturbo, quello che in questo caso può fare la differenza è non sottovalutare la profonda sofferenza che ne deriva e pensare di iniziare a identificare il rapporto che ognuno di noi ha con il cibo, questo significa occuparsi di quell’energia necessaria per la vita, significa occuparsi di se stessi.

                                                                                                  Carmen Settanta, psicologa